Il presente porta visibilmente con sé, nei nostri corpi, tutta la nostra storia, pretende un'attenzione che ci lega oltre il privato, oltre l'individualità, oltre l'identità, senza le quali tuttavia la vita non avrebbe senso per il futuro, non ne avrebbe avuto mai nel passato.
Adriana Perrotta, Paolo Rabissi

domenica 5 febbraio 2017

Memorie di un pessimista pentito. Siena, 1950, un anno di grazie

Siena è l’indicibile. Il non risolto. Come poteva essere il mondo e come non lo fu. Per quante volte io possa tornarci non riuscirò mai a sciogliere né in risa né in lacrime il grumo di emozioni che mi si abbarbica tra gambe stomaco e cervello. Siena poteva essere il risolto ma diventò presto indicibile, una pausa da rimuovere. Una stagione di vita improvvisa come una resurrezione dopo la morte dell’anno precedente a Trieste. Una stagione di vita improvvisa prima della nuova stagione di morte a Montecatini sudario per una veglia solitaria. Perché chiunque essi siano tuo padre e tua madre finché non impari a tenerli a bada dispongono di te e ti rovistano nell’intestino e rovesciano le tue budella sull’impiantito e ci camminano sopra  con scarpe pesanti e tu a chiederti che colpa hai commesso che di qualcosa devi pur essere colpevole. Se continuo a portarti a Siena è perché mi illudo di riuscire una volta per tutte a sciogliere in lacrime o risa quel grumo di emozione che mi assale nel tornarci. Celebriamo allora anche qui i nostri riti di flaneur e su e giù per la città torno a raccontarti le mie storie mentre ormai guidi tu tanto qualunque percorso disegniamo non c’è angolo acuto di palazzo antico o pietra pulita di pioggia o cortile di archi in ombra che non mi rammenti le cose vive di quella stagione. Intanto entriamo in città da porta San Marco e lasciata l’auto la strada sale di poco fino ad uno slargo dove c’è ancora la mia scuola quinta elementare anno 1950 e solo più su la casa del mio maestro che era stato anche maestro di mio padre. Vuoi mettere? Lui non c’era ma in quella scuola mi sono sentito davvero nominare in vita ed era come se fossi tornato finalmente a casa.
Poi prendiamo via Stalloreggi che ci si entra dalla porta che dà sul Piano dei Mantellini e che subito sulla destra c’è la casa di Duccio con la sua facciata uguale a com’era quando lui e sua moglie che aveva posato da Madonna si decisero a consegnare la Maestà alla quale lavorava da anni alle autorità comunali che gliel’avevano commissionata e grande com’era quella predella ci vollero decine di portatori che la portarono per strada e lui che la seguiva precedendo la processione di autorità e popolo preoccupato che nessuno la sporcasse finché entrò sana e salva in Duomo. Trecento metri più su proprio di fronte alla Piazzetta del Conte con la bella fontana dedicata alla pantera simbolo della contrada di quel quartiere c’è l’antica casa di famiglia nella quale ormai vive l’ultima Rabissi novantenne. La casa mi sembrò una reggia. Tutto era incommensurabilmente più grande e ricco della povera casa di ringhiera della nonna materna a Trieste, due stanze nella quale vivevamo in cinque, anno della quarta elementare un anno di abbandono quasi totale da parte dei miei, anno freddo per la bora che entrava anche in casa, freddo per la solitudine con parenti freddi, freddo per la assoluta incapacità da parte del maestro di parlarmi, di interessarmi, tranne negli ultimi giorni di scuola quando mi avvisò di prepararmi bene perché avrebbe fatto un’ultima interrogazione generale, miserabile maestro che non si preoccupò nemmeno di sapere se il sussidiario ce l’avevo. Non ce l’avevo. Miserabili anche i miei e miserabili anche i parenti con cui vivevo. Me lo feci prestare da un compagno di scuola per qualche giorno in cui qualcosa devo aver messo a mente ma non abbastanza perché non so di preciso come è finita tranne che a settembre ho dato degli esami e l’anno dopo ero in quinta qui a Siena al caldo accudito amorevolmente dalla nonna e dal nonno dalle zie dal cugino da parenti più o meno prossimi chiassosi e sempre in movimento.
In quell’anno ebbi anche modo addirittura di mitizzare mio padre lontano eppure presente nella casa e nella città dove tutto mi sembrava provenisse direttamente da lui come un suo messaggio potente un invito a godere finalmente della vita che quella era vita e non quella dell’anno precedente. Come se lui non avesse nessuna responsabilità dello stato di privazione in cui avevo vissuto o di quello che mi aspettava nell’anno successivo! Quel mito era un fantasma che m’incantava e regalava allucinazioni del suo palazzo nella sua città così ricca e sontuosa di torri chiese capitani di sestieri e condottieri fabbri e carpentieri giganteschi ed eventi spettacolari. Ma se a scuola quell’anno ebbi un rendimento scolastico eccellente ciò fu dovuto in massima parte al benessere psicologico e fisico procuratomi dalle cure delle due donne di casa, mia nonna soprattutto e sua figlia, Jolanda.
“…che farà questo cittino ce la farà a studiare?” si chiedeva la nonna mentre vicino al caminetto spennava il pollo, quello stesso che appeso a testa in giù col collo tirato nello stanzino aveva continuato ad agitarsi scuotendo le ali per tutta la notte e mi dava poi cinque lire per ogni problemino di matematica in più che risolvevo da mettere subito dentro un salvadanaio di coccio che una volta ero riuscito a svuotare per metà con una tecnica che mi aveva insegnato mio cugino per andare a comprare una bellissima penna blu e quelli furono piaceri uguagliati solo dal permesso di scendere con lei nei fondi e quello era il mondo suo riservato ma anche del nonno però per motivi diversi. A lui interessava uno stanzino in fondo in fondo alla cantina di cui solo lui aveva la chiave e una volta che mi ci fece entrare per poco svenni per l’odore acre di vino che veniva da un paio di botti e notare che lì dentro comunque c’era ben altro, c’erano un paio di presciutti, come li chiamava lui, appesi profumati, era una faccenda in corso tra me e lui quella perché una mattina che lui faceva colazione con prosciutto e vino io lo guardavo e lui mi ha fatto sedere e ha cominciato ad affettare e io ne ho mangiato tanto così da indigestione con febbrone e mia nonna che brontolava accidenti a te accidenti a te, rivolta al suo uomo. La nonna in cantina scendeva prestissimo quando doveva infornare il pane nell’ampio forno a legna che poi serviva per tutta la settimana e conservava il lievito madre avvolto in un lenzuolo dentro una madia lì nei fondi che c’era sempre fresco anche d’estate ma io andavo che il pane era già cotto e allora l’aiutavo a sistemarlo nella madia avvolto in lenzuoli accanto ai barattoli di marmellata compresa quella di susine. All’inizio dell’inverno l’unico vissuto con lei mi portò da un sarto e mi fece fare un cappotto, è rimasta una foto e sono elegantissimo e quel cappotto a Siena che d’inverno si sa fa sempre freddo era per me d’un calore esagerato devo averlo mitizzato un po’ come se io fossi un senese vero anche perché lei come era solita fare ci aveva imbastito su una delle sue storie di santi e qui c’era di mezzo Francesco che passando per Siena interrogato sulla forma da dare alla piazza in costruzione aveva disteso per terra il suo mantello e quella fu la forma della piazza e ogni tanto il mio me lo toglievo per guardarmelo e non so non ricordo però credo che a indossarlo dentro di me mi ricordavo del freddo patito l’anno prima a Trieste che quando uscivi la bora ti sollevava da terra e tenevi stretta la mano di qualcuno o ti attaccavi alle ringhiere di ferro gelato e insomma qualcosa vuol dire perché lì il cappotto io non ce l’avevo. Ma a te voglio anche dire questo voglio dirti che da qualche parte tra intestino e cervello si è in quegli anni aperta una ferita, una ragade di quelle che non si chiudono mai e che impari solo col tempo a governare. Il problema vero è però che se ti abitui a sopportare il dolore finisce che perdi la memoria della causa, ti porti dietro un disturbo che condiziona il tuo quotidiano e tu non te ne accorgi. Così non lo curi più di tanto e non sai che invece ti fa assumere certe posture o avere certe reazioni nelle relazioni col mondo del cui portato negativo non ti accorgi e che non avresti scelto se non avessi perduto il controllo e la coscienza di quel disturbo originario. E’ allora che il passato incistato vince su di te e ti inimica al mondo. Allora occorre ricominciare daccapo e recuperare la memoria di come sei stato da dove vieni. ll dolore in fondo è irrilevante, importante è conoscerne la fonte e imparare a guardarsene.
A lasciarti guidare lo so che prima o poi mi tiri giù per Via Di Città per svoltare poi nella ripida discesa che sbuca in Fontebranda. Come se non avessi da raccontarti altre storie mie su quel percorso che poi alzando la testa proprio sopra gli archi della fonte dove incisa nella pietra sta la terzina di Dante che la nomina ti si staglia imponente San Domenico l’immensa basilica di quei frati domenicani che odiamo più di altri per via della loro Santa Inquisizione. Con nonna Assunta era un percorso da fare di corsa perché lei non camminava ma correva, svelta svelta caracollandole io dietro leggera leggera su quell’acciottolato lucido dei passi di miliardi di piedi e non c’era tempo per chiacchiere inutili salire a San Domenico era una tappa obbligata quasi una processione settimanale e  proprio come fai tu si fermava nella Cappella delle Volte davanti al dipinto di Andrea Vanni di Santa Caterina che lui l’aveva conosciuta e ne era stato discepolo devoto recitava una preghiera in silenzio e non ha mai preteso che lo facessi anch’io chissà forse perché mi considerava già perduto con quel padre fuori di testa che andava in giro a cantare e con una madre che era meglio non l’avesse incontrata mai. Però quando tornavamo indietro era d’obbligo la visita alla casa di Santa Caterina che allora era aperta sempre a chi voleva sostare per una preghiera o per visitarla compresa la celletta quella invece chiusa dalla quale la santa distribuiva il suo pane ai poveri da una finestrella e quando il padre severo la sorprese lei volò sugli scalini e quello era proprio un miracolo e nonna Assunta non me lo risparmiava ma insisteva tutte le volte a raccontarmelo e a Natale l’unico a dire il vero con lei mi portava a visitare tutti i presepi e mi raccontava vite dei santi e insomma mi faceva catechismo senza che me ne accorgessi ma poi trovava anche il tempo in autunno, l’unico a dire il vero con lei, di portarmi fuori porta a raccogliere castagne e pigne che mettevo vicino al camino perché si aprissero per non parlare della vendemmia, l’unica della mia vita, in cui mi addormentai in un canto stroncato dalla stanchezza mentre gli altri facevano baldoria pigiando seminudi l’uva nel grande tino. E quando fu inverno che le lenzuola nel letto erano freddissime arrivava lei con il prete e le braci raccolte nel caminetto. Assunta certo che ancora in età tarda pensava a  scrivermi due righe di esortazione e fiducia. Poi c’era Jolanda che riceveva in casa il fidanzato ma mi risentiva le lezioni prima di cena e curava di vestirmi lavarmi ecc. Ogni tanto da Firenze scendeva mio cugino con sua madre severissima che rileggeva i miei temi e li trovava sempre pieni di errori lui aveva la mia stessa età e fece di tutto con la sua compagnia con doni piccoli per aiutarmi a superare la mia tristezza di ragazzino. Il mio maestro era contento di me e io di lui perché mi faceva leggere in classe ad alta voce, perché quella volta in cui mi interrogò su Giuseppe Verdi e io mi soffermai sul fatto che Verdi aveva scritto il Falstaff quando ormai era un vecchietto lui commentò ad alta voce che quel mio interesse era dovuto al fatto che avevo un padre tenore chissà se sapeva che mio padre, stato già giovane promessa senese del bel canto, in realtà cantava nelle operette con un altro nome Renzo Bassi insomma era un Rabissi anagrammato.
Scendiamo pure al mercato dietro il palazzo del Comune da dove si intravedono le arcate con i gessi di Della Quercia di Fonte Gaia e verso est si vede la bella chiesa di San Bernardino lì con nonna Assunta ci arrivavamo da vicoli diversi fino a sbucare nel piazzale per comprare frutta e verdura e io mi caricavo volentieri delle borse e al ritorno facevo il fiatone. L’ho amata e riconosciuta sempre di più quando sono tornato a visitarla lei e la sua Siena nel corso degli anni successivi e tutte le volte era la stessa emozione diglielo tu, diglielo tu a tuo padre di smetterla di cantare e di cercare un lavoro vero io ridevo ma forse in qualche modo sono riuscito a farle capire quanto le volevo bene e che l’anno trascorso con lei era stato l‘anno più bello della mia infanzia e di tutta la mia vita prima di conoscere te e abbiamo corso il rischio io e te di non incontrarci pensa se mi lasciavano per sempre lì con lei che quando ripartivo mi metteva sempre soldi in tasca e la mattina mi accompagnava da casa fino alla fermata dell’autobus che mi portava alla stazione. Poi  è morta. Madre mia vera madre impossibile madre di un giorno solo.
Insomma una famiglia patriarcale toscana. Che meraviglia! Assunta veniva dalla campagna senese, nata nel 1890 aveva assolto l’obbligo del triennio delle elementari entrato in vigore da qualche anno, era di famiglia contadina modesta e la domenica frequentava una sala da ballo in un paesino a qualche chilometro dalla città. Lì arrivò Giuseppe con un’aria da cittadino ben messo, così racconta Jolanda, di una certa corporatura mentre Assunta era minuta col volto sfilato, nella foto che conservo di loro due al matrimonio lei ha anche un’aria un po’ rassegnata ma credo che fosse per soggezione di fronte alla macchina fotografica mentre lui ha un’espressione accogliente di giovane buono. La domenica mattina dopo aver pagato i suoi operai lui che da muratore s’era fatto imprenditore edile chiamava me e mio cugino alla sua scrivania e dava paga anche a noi. Di lui ho conservato un panciotto, la scrivania e la macchina da scrivere che usava, una Remington del 1930. Giuseppe in quel ballo rimase colpito da lei e la volta dopo tornò con una catenina da cui pendeva un orologio un regalo di gusto che Assunta rifiutò energicamente ma i due si sposarono di lì a pochi mesi. Andava così. Il matrimonio fu desiderato da entrambi come il destino di una vita anche se a giudicare dall’episodio a uno gli può venire in mente che sia stato un atto di compra vendita, un orologio con catena in cambio di che? Assunta era una donna spiritosa e quando passava vicino ai giovani che facevano pausa sotto gli alberi li stuzzicava, siete arrivati all’America eh? Così racconta Jolanda mia vecchia zia che accompagna la ricostruzione delle mie memorie. A ruoli fissati, imprenditore di qualche fortuna lui, Assunta era come diresti tu una madre oblativa tutta dedita al lavoro di cura educazione e sostegno del marito dei figli e della casa. La sua linea di fuga era il culto dei suoi santi non dei preti, di Caterina e Francesco in particolare, dei quali sapeva un mucchio di storie.

lunedì 21 luglio 2014

Se mi si dice libro anch'io capisco libro e non capitolo

Se mi si dice libro anch’io capisco libro e non capitolo. Per cui verrebbe da dire che in definitiva è stata tua nuora (anche mia) a essere metonimica. In questo caso sembra aver usato una sineddoche (più nota forse all’inverso nell’uso di espressioni in cui una parte viene nominata al posto dell’intero) che è considerata molto prossima alla metonimia. Il che confermerebbe quanto dici a proposito dell’appartenenza di genere del linguaggio metonimico. Ma per l’appunto la faccenda non regge e semmai quel linguaggio è da ascrivere non a una ‘lingua delle donne’ ma più in generale a tutti i gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente.  Cioè a chi, di fronte alle istituzioni pubbliche (e ai potenti) si sente in minoranza e imbarazzato per via della mancanza sia di proprietà linguistica sia di articolazione retorica, che appartengono a chi ha studiato, letto e scritto. Mi viene in mente la novella di Simona e Pasquino di Boccaccio che tu ricorderai senz’altro (anche perché fosti tu a indicarmela come lettura importante per i nostri allievi!). Lì le cose sono chiare al di là delle intenzioni dell’autore. Simona, affranta e in lacrime per la morte del suo amante non è capace di spiegare con le sue parole di popolana commossa e ignorante la morte di Pasquino per la quale è fortemente sospettata. Il giudice, a causa del fatto che non riesce a comprendere la spiegazione di Simona, decide di riportarla davanti al cadavere e lì le chiede di spiegarsi meglio: Simona rinuncia alle parole e adopera i gesti, si passa fra i denti delle foglie di salvia così come aveva fatto Pasquino prima di morire. Il dramma così giunge al suo apice. La salvia, resa velenosa da un rospo che aveva fatto tana nel cespuglio, uccide anche Simona, popolana senza parole bastanti. Tanto per restare in tema di figure retoriche, la novella puoi prenderla come ‘antitesi’ al tuo dilemma ‘metafora o metonimia’. Perché mettere in discussione una questione simile tutto significa tranne che essere incolte e prive di parole come Simona. E allora la questione torna all’inizio:  perché l’uso della parola ‘libro’ al posto di capitolo? E poi: perché così tanto rispetto per la lettera del mandato? Perché T. adopera una sineddoche invece della parola precisa, tanto più necessaria quando si danno istruzioni? E perché tu non hai colto il senso metaforico o metonimico che fosse, direi quasi ignorandolo piuttosto che correre il rischio di non rispettare l’istruzione? Io penso che l’una e l’altra cosa dipendano dall’intreccio, poco districabile forse, del vostro amore verso il libro da una parte e da una certa vostra condizione paritaria di intellettuali. Quale appello istruttivo di maggiore efficacia, e nello stesso tempo di rispetto per come sei, poteva trovare T. che richiamasse la tua attenzione, conoscendo lei la tua profonda passione per il ‘libro’, passione dalla quale lei stessa è coinvolta? E quale migliore risposta da parte tua se non quella di rispettare appieno la nominazione di ‘libro’, costasse anche sedici capitoli? Quando dopo più d’un’ora che leggevi sono entrato a dirti che mi sembrava che tirassi troppo per le lunghe i rituali dell’addormentamento mi hai risposto sicura: beh, sono solo al primo libro!

domenica 20 luglio 2014

Metafora o metonimia?

Mia nuora mi ha affidato qualche sera fa il compito di mettere a dormire la mia nipotina di quasi tre anni, mi ha avvertito di leggerle due libri e poi lasciarla previo bacino e promessa di eventi piacevoli il giorno seguente. Questa è la prassi da lei adottata quando accompagna a letto la piccola, il che accade più raramente rispetto al papà, che non indugia in letture, riducendo il rito a pochi minuti di coccole.
E per questo la mette a letto lui abitualmente.
Io diligentemente le ho letto  il primo libro, e poi il secondo -breve- di ninne-nanne, ma la lettura del primo è durata un'ora. Vedevo che nel frattempo le si chiudevano gli occhi, ma appena abbassavo il tono della voce le si spalancavano di nuovo, e lei mi fissava con l' intenzione di controllare quello che stavo facendo.
Alla fine bacino e promessa di un lungo bagno nel mare insieme il giorno dopo.
Quando ho raccontato l'episodio, risata generale, a partire da mio marito, che già si era stupito della lunghezza della lettura da me effettuata e sosteneva che avevo frainteso la consegna.
In effetti il libro in questione era suddiviso in storie illustrate, che si succedevano come capitoli, con gli stessi personaggi.
Mia nuora intendeva dire che dovevo leggere una o due storie, e semmai contrattarne una terza, e poi il libro delle ninne-nanne, a conclusione.
La risata generale con la quale è stata accolta la mia perfomance mi ha suggerito una risposta sintetica: io sono metonimica, poco metaforica, se mi si dice un libro io intendo il libro nel suo complesso, altrimenti mi si deve dire capitoli, episodi, racconti....
Al di là dell'aneddoto mi sono tornate in mente le indagini sociolinguistiche degli anni Sessanta, svolte in area prevalentemente anglofona, che ritenevano di aver individuato una "lingua delle donne" in un insieme di espressioni e intonazioni che avevano a che fare con un'abbondanza di formule di cortesia, con la preferenza verso  la domanda invece dell'affermazione, o nel caso di una necessaria affermazione con l'uso contestuale di formule attenuative,  con il ricorso frequente alla seconda o terza persona invece che alla prima...e via dicendo. Salvo poi accorgersi e convenire sul fatto che queste strategie comunicative sono comuni a tutti/e  gli/le appartenenti a gruppi sociali subalterni, deprivati culturalmente e socialmente, indipendentemente dal sesso, specie in interazione con appartenenti ai gruppi dominanti.
Lungi quindi da me l'idea di un comportamento ascrivibile a una presunta "lingua delle donne", tuttavia certi tratti distintivi di questa fantasmatica lingua mi sono propri.

mercoledì 4 giugno 2014

Libere dai dolori del parto, libere/i dalla fatica di guadagnarsi il pane.


Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli...il tuo istinto ti spingerà verso il tuo uomo, ma egli ti dominerà!'.[...] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane,  finché non ritornerai alla terra"



Così circa due o tre
 " mila anni fa uomini dell'area mediterranea (non so se ci siano state donne tra le redattrici dei libri dei quali si compone la Bibbia), in prevalenza agricoltori e pastori, diedero senso al loro travaglio di vivere, immaginando la condanna divina causata dalla disubbidienza dei progenitori.


Indipendentemente dal fatto di credere o meno nelle religioni che riconoscono alla Bibbia la funzione  fondante, indipendentemente dai successivi apporti delle popolazioni che hanno abitato e arricchito culturalmente il mediterraneo e l'occidente, le immagini per le donne dei dolori del parto e della subordinazione all'uomo, e per gli uomini della fatica di  procurare i mezzi di sussistenza, con le conseguenti funzioni di protezione e difesa, ci hanno accompagnato fin dalla nascita.

In fondo il progresso tecnologico mondiale può essere letto anche come tentativo di alleviare la fatica del produrre, è stata trascurata invece la sofferenza del partorire, è recente la pubblicizzazione delle tecniche per il parto indolore, ancora osteggiato in certi ambienti.

Le tecnologie della produzione, agricola e industriale, sono state sempre presentate alle masse come vittorie sulla fatica, sugli ostacoli naturali, sui mali che affliggono l'umanità, celando a parole gli interessi di arricchimento personale e di comando su persone, cose e animali. 

L'automazione delle fabbriche è realtà dalla seconda metà del secolo scorso, non ha comportato l'eliminazione dello sfruttamento, anzi ha dislocato nel mondo i vari carichi di  lavoro, ha spostato i rischi maggiori nelle zone del pianeta impoverite, quindi più ricattabili.
Una ditta americana ha in prova dei droni per consegnare sempre più velocemente le merci ordinate; accanto a questa notizia è riportata una ricerca inglese che  prevede entro vent'anni la sparizione di lavori dequalificati, quali contabile, magazziniere,  addetto ai call center e dattilografe, tutte figure professionali che saranno sostituite da automi..


Oggi ci troviamo nel nostro mondo occidentale di fronte a una quantità di tempo lavoro liberato, si potrebbe  pensare di sostituire i mestieri e le professioni rese obsolete dall'impiego della tecnologia con altre attività, considerate a tutti gli effetti lavori, di attenzione e presa in carico delle persone, della loro vita, degli ambienti nei quali viviamo, e via via allargando sempre più il cerchio, alle zone vicine e progressivamente alle zone più lontane.
Ognuno/a impiegherebbe energie, creatività, impegno nelle attività più congeniali, così come finora è stato auspicabile  per le vecchie professioni.
Qualche cosa c'è già, penso ai GAS, alle banche del tempo, ai vari livelli di volontariato, che dovrebbero però essere considerate lavoro a tutti gli effetti, e non solo manifestazioni di altruismo e generosità individuali.


Sembra fantascienza, o velleitarismo, in un sistema ancora basato sull'accumulazione di ricchezze e sullo sfruttamento di persone, animali, risorse naturali, da parte di "pochi" privilegiati a livello mondiale, ma ben altri cambiamenti si sono avuti nel corso della storia, chissà, forse oggi siamo più vicini di quanto pensiamo.
Bisogna cominciare a raffigurarsi i modi, a organizzarsi almeno mentalmente in questo senso.

martedì 29 aprile 2014

Le cicogne di Micene



...hai ragione a dire che è presto per dire la fine del patriarcato. Però è cominciata da tempo. Per noi Occidentali dal giorno in cui Agamennone sacrificò Ifigenia e Clitennestra uccise Agamennone e Oreste uccise Clitennestra e poi lui ne fu perseguitato dalle erinni... Ma l'agonia sarà ancora lunga. Del resto quanto tempo gli ci volle per diventare la nostra cultura? Diecimila anni, ventimila, centomila?

Le cicogne di Micene 
(lettera in ricordo all'amica di viaggio).

Non era l'alba dei sogni né il tramonto delle idee
quel nostro varcare la porta dei leoni 
incastonati nelle pietre di Micene,
aprivano per noi un varco nel tempo,
e a tetti e pareti mancanti
ci accolse odore di fieno e di morte
come se gocce di sangue, ferite aperte,
scintillassero ancora tra basamenti intatti.
Il sentiero ci conduceva a voci sopite,
io a lei tu a lui la mano, per quei tremila anni
come un battito di ciglia, la tracotanza di Agamennone, 
il rancore di Clitennestra.

Dicevamo di quegli scenari consueti,
di maschi guerrieri inventori di ruoli e tradizioni 
per la propria egemonia di vendicatrici private
mai libere a mimarne gesta  e pensieri,
come fosse un destino più forte persino degli dei
che hanno abitato alberi, statue e ginestre
di questo paese.
No, nessun destino. 
E' volere arcaico, ordine patriarcale, 
che intreccia passioni e divino,
che ci vorrebbe eredi per sempre di maschere d'oro,
tombe ciclopiche, armature ammaccate.

Ci teniamo noi a passioni pazienti 
di lumi e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
alla fine del sentiero, dividere tra tutt*
il tempo di cura dell'aria, dell'acqua, della terra. 
Finché il pianeta ci tenga.
Per ora contentiamoci di un the in questo bar
fuori mano. Le cicogne su quel palo hanno l'aria
di mandare segnali. L'una si stacca in volo e torna,
l'altra l'accoglie col battito sonoro del becco, un applauso.
Ci chiediamo chi sia il maschio e chi la femmina.
Le abbiamo lasciate al loro destino.

                                              *******



Sulla salute attuale del patriarcato

Da più parti sento affermare che il patriarcato è "in dissoluzione", se non addirittura morto e sepolto.
Io confesso di sentire un certo disagio di fronte a queste affermazioni, perché continuo, nelle mie riflessioni, a tenere lo sguardo fisso proprio sull'intreccio sistema capitalistico (sociale) e patriarcato (simbolico) come due catene che a gradi e diversi livelli di pressione/oppressione in tutto il mondo, tengono inchiodati/e donne e uomini a vite dolorose  e insopportabili, tutte le dichiarazioni di morte del patriarcato mi fanno sentire come  la combattente di una battaglia di retroguardia, come una ultima giapponese nella foresta tropicale, che non si accorge che lo scenario in cui vive è grandemente mutato.
Io credo che questo dipenda da che cosa si intende con il termine patriarcato: se si vuol dire che si sono rotti gli universi simbolici sui quali si basava, la cosa è ovvia, almeno nella nostra cultura occidentale, da circa quarant'anni a livello di massa, e prima  solo a livello individuale - donne e uomini che hanno messo in crisi quel paradigma nel corso di secoli-. 
Ma se si esce dalla dimensione di considerarlo un potere assoluto e impenetrabile, se non lo vede come un monolite, ma si riflette sulle sua capacità di adeguarsi ai mutamenti sociali di superficie, sulle sue tecniche di penetrazione e conquista di cuore e menti, sui suoi modelli di organizzazione sociale, culturale, politica scientifica via via aggiornati e proposti... Se si fa attenzione ai linguaggi, sia specialistici  che colloquiali familiari che hanno permeato, allora si vede che è vivo e vegeto nelle menti e nelle coscienze di molte e molti, qui da noi e nel resto del mondo, con il quale siamo in stretta relazione. Per queste ragioni è  accettato e riprodotto da noi inconsapevolmente nelle nostre stesse relazioni sociali. 
Più di trent'anni fa alcune donne dei Centri  italiani, sulla scorta di quanto avveniva in altre zone d'Europa e d'America (anche del centro-sud) avviarono la riflessione sul sessismo linguistico e sulle sue conseguenze nella costruzione identitaria di donne e uomini, denunciando il ruolo della formazione di soggettività che una lingua androcentrica -patriarcale- ricopre nella formazione di soggettività nella comunità dei/delle parlanti, con le metafore e gli stereotipi che assorbiti fina dalla nascita vengono considerati "naturali" e non "storicamente determinati". Questo  discorso, articolato in testi, seminari, convegni che prendevano in considerazione  molti settori della comunicazione formale e informale, venne irriso, e osteggiato anche da molte donne del movimento come irrilevante. 
Oggi per fortuna è cambiata la mentalità, ma ho portato questo esempio proprio per attirare l'attenzione sugli aspetti di manipolazione da parte del sistema patriarcale, e sul pericolo di sottovalutare la sua disseminazione nelle coscienze. In fondo la stessa cosa si può dire del sistema capitalistico, già in crisi in tutto il mondo, attaccato  anche nei suoi stessi fortini, criticato da tutti, non a caso strettamente intrecciato con il sistema patriarcale, ma mi guarderei bene dal dire che è in dissoluzione.

martedì 11 marzo 2014

Prozac e quote rosa


Le quote rosa sono il prozac per una società sessista, tacitano il sintomo, senza incidere minimamente sulla malattia (disagio, sofferenza, sessismo....). 

Finalmente si è fatta chiarezza con le votazioni tenutesi in Parlamento il 9 marzo, che hanno bocciato tre emendamenti presentati per modificare in senso paritario la presenza degli uomini e delle donne nella prossima legislatura.
Con il voto segreto  la comunità degli uomini, nel suo complesso, aiutata da qualche donna cooptata e fedele, indipendentemente da orientamenti politici, ha mostrato  che non vuole condividere il potere di comando con le donne. 
Questo non vale per tutti gli uomini, ma per la maggioranza. 
Quindi è inutile affidare le speranze di raddrizzare un ordine sociale sbagliato (patriarcato) a meccanismi e regole di funzionamento, occorre indagare a fondo nella relazione donne uomini per andare a scovare l'origine di questo male. 
Il femminismo lo fa da quarant'anni, e alcune donne isolate avevano cominciato anche prima.
Detto questo, mi sembra incontrovertibile che le votazioni in Parlamento abbiano riguardato in realtà problemi interni a partiti, e problemi fra partiti. 
Si è consumata l'ennesima strumentalizzazione di una "questione femminile" (intesa come problema di donne, invece che questione generale di democrazia) per motivi e obiettivi di opportunità politica, da una parte c'era chi pensava di affossare il patto Renzi-Berlusconi con questo pretesto, dall'altra chi, temendo questo, ha sacrificato una conclamata adesione alla parità di genere per mantenere il patto scellerato.
Non è che gli uomini non vogliano donne in Parlamento, solo vogliono nominarle loro, per mantenerne il controllo; vanno bene donne che condividono l'idea della "naturale" divisine del lavoro, stabilita dall'ordine patriarcale, e/o quelle che resteranno fedeli ai ai capi che le hanno cooptate e alle loro future decisioni, senza ribellarsi e avanzare pretese di uguaglianza; donne propense a adottare la dimensione della complementarità, piuttosto che il conflitto.
Non si spiega altrimenti il silenzio delle ministre appena nominate, in numero pari con gli uomini nel governo e mute come pesci.
Non hanno proprio niente da dire in merito?
Io sono favorevole all'ingresso di quante più donne possibili in tutti i luoghi tradizionalmente maschili, soprattutto di potere, ma dico che non basta, senza un cambiamento profondo delle coscienze e della cultura di uomini e donne e una volontà di reale trasformazione della relazione si fanno pochi passi avanti, e se mutamenti si verificano,  si tratta di mutamenti di superficie, evenemenziali.
Non sottovaluto certo l'aspetto simbolico di una parità quantitativa, ma si tratta appunto di una trasformazione superficiale, che non incide sulla natura maschilista della nostra società.
A chi parla poi di democrazia paritaria ricordo che per essere paritaria  una democrazia deve lasciare in caso di elezioni libertà di scelta a chi elegge le/i propri rappresentanti.
Con le nostre leggi attuali, il porcellum prima, e l'italicum oggi, questo non è possibile.
In mancanza della possibilità di indicare preferenze, una schiera di donne "nominate" cooptate e fedeli a chi ha il potere di nominarle non mi rappresenta neanche un po', questa non è vera democrazia paritaria.
Un' ultima osservazione, in occasione di questo episodio su face book donne pro quote e donne  contro le quote se le danno -metaforicamente- di santa ragione; vexata quaestio, da anni se ne discute, il tema della rappresentanza femminile ha monopolizzato anche gli ultimi convegni femministi di Paestum.
Quello che mi dispiace è il rancore espresso per lo più da donne pro quote, che in sporadici casi arrivano ad accusare  di complicità con il maschilismo chi tenta di esporre le ragioni per cui non si sgretola l'ordine patriarcale semplicemente inserendo più donne in un mondo regolato al maschile, e chiamandole a condividerlo, tutt'al più a modernizzarlo e trattenerlo dal baratro, prendendosene cura.
Allora il nemico diventa non più la comunità maschile, saldamente arroccata sui suoi posti di potere, ma le donne che criticano le quote, che esprimono un pensiero critico, definite a volte pseudo-femministe.
Io sostengo solo che occorre lottare non solo per una parità formale,  ma per distruggere questo ordine, le mentalità e le realtà concrete che lo sostengono.